domenica 10 marzo 2013

9 (Shane Acker)

La dicotomia uomo-macchina è uno dei soggetti chiave dell’epoca contemporanea, e generalmente si risolve col timore atavico del primo nei confronti della seconda. Del resto, il tema è mitologico: Crono divora i propri figli perché non gl’impongano la loro supremazia, che poi è quel che accade con Zeus, fortunato sopravvissuto che confina il padre nel Tartaro.
La cristianità, timorosa e restauratrice, impone per secoli il capovolgimento di quest’ordine (peraltro naturale) delle cose. Il Padre è il Verbo incarnato, e per dimostrare il suo dominio dilania il proprio figlio fino alla morte: che la croce insanguinata resti a monito per l’eternità. Nella dittatura monoteista chi si ribella è perduto; Dio crea il Male per par condicio, ma Lucifero finisce all’Inferno.
Da due millenni l’uomo occidentale è stato perciò educato a temere i frutti del proprio ingegno (il progresso, le rivoluzioni, la tecnologia): se pecca in superbia può perdere l’anima (Faust) o creare mostri (Frankenstein).
Ma il cambiamento non può rimanere congelato per sempre, e in un modo o nell’altro qualcosa si è comunque evoluto, tra sangue e fatica. Oggi l’uomo non teme più indistintamente ogni sua creazione, poiché c’è sempre del buono in ciò che nasce con amore e dedizione. 9 è un bellissimo film d’animazione che parla proprio di questo.

L’ambientazione, steampunk e postapocalittica, fa volutamente un po’ paura. Dopo la guerra mondiale definitiva in cui i macchinari più avanzati che la terra abbia mai conosciuto radono al suolo ogni forma di vita, le uniche creature rimaste a popolare il pianeta sono dei piccoli pupazzi di metallo e stoffa che devono fermare una malefica macchina distruttrice rediviva. Evidentemente anch’essi sono una creazione dell’uomo: teneri e impacciati come nella più classica tradizione burtoniana, la loro estetica è metà fra le lugubri animazioni dei fratelli Quay e i piccoli kodama della Principessa Mononoke (Miyazaki), delicatamente inquietanti.
C’è però una sostanziale differenza tra questi e le macchine distruttrici: nei pupazzi (animati, è proprio il caso di dirlo) c’è il soffio vitale del loro creatore, mentre gli orribili congegni da guerra non possono che succhiare le anime intrappolandole dentro di sé.

L’enigmatico titolo del film, 9, è il nome del protagonista, che gli scopriamo tatuato sulla schiena in apertura. Lui è l’ultimo di una serie numerata di pupazzi che a fatica cerca di sopravvivere; non tutti ce la faranno, e anzi questa storia non lesina sulle perdite (realistiche e dolorose) che una guerra può generare.
Risvegliatosi per caso dopo l’ecatombe, 9 esplora quel che rimane del suo intorno e scopre che ne esistono altri come lui. Scopre anche però, con disagio, che anziché lottare contro i rimasugli della tecnologia distruttiva (un orribile gatto meccanico che ha un teschio al posto del muso si aggira fra i rottami cercando i pupazzi superstiti) questi hanno deciso di rifugiarsi tra i resti di una cattedrale, e lì rimanere in attesa che la “provvidenza”... provveda.
Cattedrale non a caso: il pupazzo “capo” è infatti 1, sorta di leader religioso autoinvestitosi che impone a 8 (grosso, forzuto e poco intelligente), 6 (creativo visionario e un po’ autistico) e 5 (sensibile e timoroso) di rimanere entro le mura sicure della chiesa, il che comporta evidentemente il rifiuto di andare a cercare i compagni scomparsi - tra cui 2, bizzarro e coraggioso inventore che si sacrifica proprio per salvare 9 dal felino infernale.
Ma 9 è l’incarnazione del cambiamento di cui si diceva sopra, e rifiuta il conservatorismo vigliacco dell’improvvisato vescovo. Insieme a 5, che racimola il coraggio per fare la cosa giusta, va alla ricerca di 2, e durante il viaggio troverà anche gli altri pupazzi: 7, una coraggiosa guerriera mascherata (che ricorda, non a caso, proprio l’impavida Mononoke) e i due gemelli 3 e 4, tenerissimi archivisti che in quel che rimane di una biblioteca conservano la memoria storica del mondo.

Finale prevedibile? Abbastanza, per fortuna. Con una chiusura troppo complessa e/o drammatica, questa splendida storia avrebbe altrimenti perso il suo fascino fresco, pulito e idealista. Non per questo 9 è un film dalla trama modesta. Basti pensare, in primis, all'interessantissima costruzione del protagonista: 9 è sì il Prometeo che conduce i suoi simili fuori dalla socratica caverna, ma è anche colui che per un errore di calcolo risveglia la grande macchina devastatrice, pronta e determinata allo sterminio. 
Inoltre, non s’era mai visto che le sorti del mondo fossero affidate in toto a delle creazioni artificiali: qui l’uomo esiste solo in quanto, appunto, amore infuso nei propri artefatti, un ricordo paterno e premuroso che ha regalato l’ultimo dei suoi respiri all’ultimo dei suoi “figli”. Dal mito greco alla dittatura cristiana, l'ennesimo tabù si compie: non il Figlio incarnato che soffre per il suo popolo terreno, bensì Dio Padre, il Creatore (the maker per gli anglosassoni, che in questo caso rende meglio l’idea) il quale sceglie di dare la vita, letteralmente di estinguersi, sparire dal mondo. Una visione, dunque, sovversiva e relativista - in altre parole, puramente scientifica: dio equivale alla propria creazione, che può benissimo sopravvivere alla morte del padre.

9 è perciò un (bellissimo, di nuovo!) film d’animazione per tutte le età, costruito però su basi “filosofiche” evidenti: l’uomo non dovrebbe lasciarsi sopraffare dalla propria intelligenza, ma nemmeno rinnegarla. L’equilibrio è la chiave: e così l’umiltà, la delicatezza, l’impegno. Non a caso il film è disseminato di riferimenti alla bellezza della cultura umana: non solo la scena nella biblioteca, forse la migliore di tutte, che quasi commuove mostrando immagini nostalgiche d’immemori tempi d’oro, ma anche quando tutto sembra essere finito in bellezza e i pupazzi si concedono un pezzo al grammofono, è la malinconica Over the rainbow (nella versione di Judy Garland) che emerge a fatica dal 45 giri. Un significativo preludio al finale tutto in verde (speranza): le anime dei pupazzi sono verde pallido, la pioggia è piena di cellule verdi, microscopiche spie della rinascita del mondo. Le macchine invece, ovviamente, sono tutte grigio acciaio e rosso, e prendono le forme di animali in genere temuti dall’uomo: la grande macchina distruttrice ricorda una sorta di enorme ragno, ed è accompagnata da un congegno volante simile a uno pterodattilo e da un velocissimo essere verminoso. Del felino s’è già detto; e come fosse stato solo un piccolo assaggio del "male", ne era decisamente la versione meno inquietante.

Non è un caso, infine, che pupazzi e macchine abbiano lo stesso creatore: il quale ricorda vagamente un Einstein (o un Fermi) intrappolato tra necessari finanziamenti governativi e idealismo scevro da compromessi. Politica e scienza, si sa, non hanno quasi mai formato un connubio vincente: basti pensare, appunto, alla bomba atomica, ma anche alle idee di Leonardo, micidiali basi per “l’artiglieria pesante” del XVI secolo che le sovvenzioni sforzesche contribuirono a perfezionare.
In altre parole, 9 ci dice che quando uno scienziato crea solo in nome della scienza nascono pupazzi, espressione pura dell’intelligenza e della fantasia (infantile, perché no), costruiti con materiali grezzi, a volte addirittura di scarto, piccoli e vulnerabili, eppure preziosi perché vivono (letteralmente) di vita propria. Quando invece cancellieri arroganti impongono la propria visione del mondo, la scienza si piega e si distorce in congegni diabolici, che sfuggono al controllo del proprio creatore. Anche se non del tutto, ci insegna 9 in un finale pieno di speranza (spoiler): la grande macchina divoratrice di anime è infatti attivata da un dispositivo minuscolo e finemente intarsiato, che se scollegato e aperto può liberare tutte le anime intrappolate.
Anche nel peggiore degli errori umani, dunque, può esservi redenzione: e questa è l’unica consolazione cristiana concessa in un film squisitamente laico e progressista.