domenica 11 marzo 2012

"Dune", David Lynch

Parafrasando Stoker, nel 1992 Francis Ford Coppola faceva dire al suo Dracula che “il sangue è vita”. Lynch qualche anno prima aveva preferito una formula più ecologicamente ovvia: “l’acqua è vita”.
E a proposito di ecologia, “Dune” in effetti somiglia molto alla tipologia di film d’animazione dello studio Ghibli, dove l’elemento ambientale è quasi sempre determinante; esempio egregio è la Principessa Mononoke, che peraltro ha una struttura narrativa ancora più complessa.
“Dune” è, appunto, una fiaba ecologista. In un cosmo retto da un imperatore assente, simbolo del potere spersonalizzato e arido che i nostri tempi spesso lamentano, coesistono realtà feudali contraddistinte da caratteristiche molto specifiche: quella degli Harkonnen è una fetida baronia dal miscuglio etnico scandinavo-scozzese, retta da uomini ignoranti e crudeli; la casata dei duchi Atreides è all’opposto simbolo di nobiltà d’animo, grazia e forza; vi sono poi gli orrendi “navigatori” della Gilda Spaziale, che vorrebbero morto il giovane duca poiché intuiscono che potrebbe mettere in serio pericolo gli attuali equilibri politici.
Questi equilibri si basano interamente sulla “spezia” estratta dal pianeta Arrakis (Dune, appunto), pregiatissima sostanza che rappresenta una sorta di petrolio multiuso, metafora del potere assoluto.
Il complotto tra imperatore e Harkonnen tende una trappola proprio agli Atreides, posti a governo di Arrakis in modo da essere il più possibile vulnerabili ad attacchi esterni. Il pianeta della spezia è infatti un deserto inospitale popolato da enormi vermi sotterranei che possono essere domati solo dai Fremen, beduini fantascientifici che hanno imparato a sopravvivere al di sotto di queste torride lande.

A funzionare maggiormente in questo film è la totale riuscita dei personaggi. Ognuno è paradigmatico del suo ruolo: Paul Atreides è il principe perfetto, coraggioso e giusto; Jessica, sua madre, è la quintessenza di una bellezza sensuale che si nobilita naturalmente una volta giunta nel suo aristocratico habitat d’elezione; Vladimir Harkonnen è l’antagonista per eccellenza, disgustoso nel corpo e nello spirito. E così via.
Particolarmente riuscita è poi la casta delle Bene Gesserit, mistiche cupe che ricordano in maniera impressionante il look della più nota madonna di Fouquet, pur senza averne la strepitosa carica erotica (in quei panni, Jessica farà eccezione; è troppo bella per essere altrettanto freddamente cibernetica). Le Gesserit sono donne cattive, aride, logiche; depositarie di un potere che secondo la prospettiva di Lynch sembra aver mantenuto solo l’aspetto dottrinario e feroce del credo, smarrendo del tutto empatia e bontà.

La totale sterilità di queste donne viene spezzata da Jessica, che contro ogni avvertimento decide di mettere al mondo Paul, un maschio, frutto peraltro del suo illecito concubinaggio col Duca Leto detto “Il Giusto”.
Come molti figli “maledetti”, il giovane ha tutte le caratteristiche atte a renderlo il protagonista di una storia come questa; così perfetto da stonare qualche volta, anche perché il volto di Kyle MacLachlan è troppo efebico per non nauseare in panni nobili.
Un ottimo physique du role è invece quello del grande Max Von Sydow, che qui è un medico/scienziato dal drammatico destino: non ancora vecchio, ma dall’aria saggia quanto basta. Lo stesso Lynch è efficacissimo nel piccolo cameo che si concede allo scoccare più o meno della prima ora del film: la fuliggine sul viso non impedisce di riconoscerlo nel macchinista dall’accento west coast.

Oltre all’attore-feticcio McLachlan e alla passione per la struttura fiabesca e le atmosfere surreali, in “Dune” di Lynch c’è già moltissimo anche a livello stilistico.
Un’inquadratura su tutte determina la paternità di questo film: quella in cui la Shadow Mapes (serva fremen d’aspetto nanesco - sempre a proposito di feticci lynchiani) entra nella stanza di Jessica. I soffitti sono particolarmente bassi, il legno predomina e l’atmosfera è schiacciante: sono le prove generali per le asfittiche baite che “Twin Peaks” ostenterà una decina d’anni dopo.

Un po’ per questioni di fedeltà al romanzo da cui è tratto il libro, un po’ perché  all’inizio degli anni ’80 Lynch è ancora can che abbaia ma non morde, il lieto fine ce lo si aspetta, e infatti arriva puntuale.
Si capisce bene d’essere di fronte alla riduzione cinematografica di un romanzo: più che una storia questo film è un riassunto, un assaggio.
Come già detto, è un esempio d’ecologia e di utopia politica. Alla neutralizzazione della spezia, simbolo di potere corrotto ed estratta da una terra arida e ostile, corrisponde infatti una pioggia purificante, promessa di vita nuova. Il bene trionfa, l'utopia si compie. Infatti ci si crede poco.