lunedì 16 gennaio 2012

"Shame", Steve McQueen

Mai titolo fu più appropriato.
E mica per la questione del sesso, che (da) sempre turba le folle e rinfocola tabù; è che Brandon è un personaggio vergognoso a prescindere, e si spera la sua mania sia solo un'intenzionale metafora per esprimerne la generale superficialità.
Come è stato fatto notare a chi scrive, siamo di fronte alla solita storia di ricchi annoiati che non sapendo che fare della propria vita buttano soldi in scemenze e/o attività dannose per sé o per gli altri.
Il succitato Brandon, protagonista e sovrano indiscusso di cotale squallore, non si sa neanche bene che lavoro faccia; sta in un ufficio trasparente tutto il giorno a bere Red Bull e farsi insultare dai colleghi (per cui il massimo del saluto è "ciao stronzo"), gira per locali fighetti della New York bene e ogni tanto va a correre per non perdere l'uso del braccio destro (chi ha occhi per intendere, intenda).

E quindi, come si suol dire, "una vita come tante", con la differenza che questa è 100% spreco di mezzi, intelligenza ed energie.
Il caro Brandon avrebbe pure una sorellina, la maldestra Sissy, che a sorpresa lo viene a trovare scatenandone l'ira funesta (citazione immeritata; chiedo venia, Omero). Lei che nella sua ingenuità naïf sperava in una riconciliazione col sangue del suo sangue, si ritrova ospite indesiderata e quasi presa a schiaffi dal fratello.
Ma non lasciamoci ingannare da quegli occhi pesti e dal caschetto sbarazzino; il QI di questa neo-donna non è abbastanza alto, né la sua vita sfortunata a sufficienza da meritare la compassione di chicchessia.
La piccola canta in locali di lusso, e volendo potrebbe benissimo mantenersi da sola (dice che prima viveva a Los Angeles, e le piacerebbe tornarci); ma il fatto è che si sente sola, è probabilmente appena stata mollata e le manca l'unica famiglia che ha. Perciò va dritta nella tana del lupo, e dato che non brilla per dignità finisce per farsi il capo di Brandon giusto la sera in cui lui, Brandon, accetta di venire a sentirla cantare.
Diciamocelo: l'unica volta in cui il protagonista di questa bieca vicenda mostra di avere un cuore, è nel momento più banale possibile, e cioè, nell'ordine, mentre
- sua sorella (legame familiare strappalacrime)
- canta (potenziamento del pathos)
- New York, New York (a New York)
- male (male, malissimo, malerrimo! una nenia così insopportabile che ti prude il deretano dalla voglia di levarti dalla poltroncina e uscire a fumare - anche se non hai mai fumato nella vita, per dire).

Per sapere che per una persona del genere la speranza di redenzione sia inesistente non c'è bisogno (ahimé) di aspettare la fine del film; basta vedere Brandon al suo primo appuntamento con la bella collega coloured (altra banalità politically correct).
Fa inorridire il suo essere scialbo: sceglie senza pensarci il vino che il cameriere gli suggerisce e non lo assaggia neanche (cafone), aspetta che lei ordini per poi ordinare la stessa cosa, e si dimostra un pessimo, pessimo, PESSIMO conversatore. E questo non perché affermi di non credere nella coppia (al che giustamente lei ribatte "... scusa, ma. Allora perché siamo qui?"), ma perché proprio non sa reggere un dialogo. Niente, neanche le domande più vergognosamente basilari.
Dato che però siamo all'interno di una dimensione (si spera!) surreale, la patetica pulzella rimane affascinata da queste non - maniere (non sono né buone né cattive; non sono e basta), al punto da lasciarsi trascinare in un motel in pieno orario di lavoro - per fare finalmente qualcosa di costruttivo, se non altro.
Ma com'era già prevedibilissimo, il nostro non si può eccitare se la cosa non si mantiene a infimi livelli di superficialità, per cui si ritira in un angolino a piangersi addosso e manda via senza troppe cerimonie colei che è il simbolo del suo fallimento. Sarà prontamente rimpiazzata da una prostituta che qualche minuto dopo lascia Brandon esausto e soddisfatto sul pavimento.

L'atto finale di questa sequela di nonsense offensivi per il genere umano si consuma in una notte così lunga che sembra di essersi accampati al cinema dalla scoperta del fuoco.
In un flashback decente (la regia è l'unica cosa non male in questo film), si vede Brandon litigare con la sorella e uscire a fare un giro; dopodiché, pensa bene di adescare una sciacquetta in un locale infilandole le dita sotto le mutande (sempre che le portasse) e sventolandole poi sotto il naso di un inferocito boyfriend/avanzo di galera, il quale ovviamente lo riempie di botte (e un po' di soddisfazione la dà, diciamolo pure).
Al che Brandon cosa fa? Anziché tornare a casa da Sissy che lo tempesta di chiamate lagnose, s'infila nel primo locale a luci rosse che trova e si fa fare un blow job da uno sconosciuto (fremito in sala... per l'ennesimo cliché).
Alla fine della nottata, mentre ciondola sbattutissimo in una metro semideserta, forse comincia a pensare che sarebbe stato davvero meglio tornare a casa dalla famiglia; e quando il treno si ferma per un'operazione di polizia, il sospetto che sua sorella possa aver fatto qualche ca@@ata diventa una certezza.

E infatti eccola lì nel bagno, sbrodolata nel suo stesso sangue. Uno pensa di aver visto tutto il prevedibile, e invece gli tocca un ulteriore sussulto d'indignazione.
Inutile dire che la sciagurata sopravvive - chi vuole morire davvero non si taglia i polsi a metà - e che Brandon finisce su un molo ics a battersi il petto per la disperazione. Poverino.

L'unica scena degna di nota in questo carosello di oscenità - in senso lato - è una delle primissime: quando lui flirta con una ragazza in metropolitana.
Lì, la musica e gli stacchi sui loro sguardi sono pura poesia, e il dettaglio dell'anello che le pesa all'anulare è degno di Hitchcock.
Ma tant'è, in questo film dove solo la regia si distingue per una certa raffinatezza - o meglio, efficacia: si pensi alle inquadrature iniziali, dove di Brandon si vedono per primi sempre i lombi - persino l'unica scena dotata di un po' di purezza deve essere sporcata dal finale che la recupera: ora la bionda non è più impegnata, e non fuggirà per le scale come l'altra volta. Il gioco nauseabondo ricomincia.

La storia di Brandon è una storia disgustosa perché dominata dalla superficialità e dal vuoto esistenziale. L'essere sex addicted non è che un sintomo; rivela semplicemente la smania di avere piaceri facili e veloci, il disinteresse totale verso qualcosa che sia duraturo e importante, si tratti d'amore o di qualsiasi altra cosa.
Non stupisce che non vi sia redenzione per questo Signor Nulla dall'esistenza inutile; non stupisce, e non dispiace a nessuno.

domenica 15 gennaio 2012

"Anonymous¨, Roland Emmerich


Il potere della parola ha un fascino superbo. La parola che ferma, che inchioda, che spilla veleno dagli occhi e che sulle labbra trema. É questo il leitmotiv del film, che consuma dentro e prude l'anima, al di sotto del quale è posta persino la vita medesima del poeta: a prescindere dalla verità filologica, Emmerich soprattutto omaggia l'arte di Shakespeare, creando una trama degna di una sua tragedia.

Quando le prime note del Lux Aeterna armonizzano drammaticamente il matrimonio di Edward/William, non è l'ossimoro a stonare, bensí lo scompenso storico che s'è reso necessario a crearlo. Perché è un po' banale usare Mozart su Shakespeare; come una torta di compleanno mezza sacher e mezza tiramisù. It would be redondant, come disse una volta un personaggio che qui ben poco c'entra.
Questa licenza poetica è in ogni modo l'unica che il regista si concede in Anonymous, per il resto film complicatissimo e che non poco spazio concede all'arte e alla bellezza.
Come accennato in apertura, qui non manca nulla: trame cortigiane, omicidi (anche involontari), liasons proibite, truffe, addirittura incesto. Una tragedia greca in piena regola, come beffardamente suggerisce Cecil figlio alla fine: Shakespeare stesso non avrebbe saputo fare di meglio.

Indipendentemente dalla veridicità storica (tuttora indimostrabile), la vicenda così posta ha un senso. Le opere di Shakespeare sono un trionfo di citazioni classiche e finezza espressiva, caratteristiche impossibili a trovarsi in un bifolco illetterato del XVI secolo. Molto più probabile si trattasse di un nobile colto, che conoscesse il greco e quindi avesse letto Omero e Platone (probabilmente con una preferenza per quest'ultimo), e soprattutto che d'intrighi di corte avesse, suo malgrado, esperienza diretta.
L'insinuare che ci fosse di mezzo una relazione nientemeno che con la regina Elisabetta (Joely Richardson) è banale, eppure affascinante: lascia a bocca aperta il modo in cui il giovane Edward, dopo averla involontariamente offesa, di nuovo la seduce e sottomette senza toccarla con un dito, col solo ausilio della poesia.

Le citazioni, ovviamente, si sprecano. La migliore è quella di Amleto: l'essere o non essere sotto il temporale fa dimenticare quanto nel cinema sia abusata la pioggia a scopi drammatici.
Ma vi sono anche citazioni meno esplicite. Ogni personaggio rappresenta uno stereotipo shakespeariano: Cecil padre ha il temperamento di uno Shylock, suo figlio Robert è Jago; la regina è una sottile Titania, Edward chiaramente Prospero (anche se Elisabetta lo definisce Puck, all'inizio).
L'unico a non trovare posto in Shakespeare è Johnson. E' troppo ambiguo, troppo moderno; se proprio si vuole dargli una collocazione storica lo si incontrerà a Napoli, perché in una delle scene finali è proprio identico all'ultimo Golia decapitato da un empatico David (Caravaggio).
E a proposito di fisiognomica: quant'è straordinario Rhys Ifans nei panni di Edward De Vere? Chi l'avesse subito identificato con lo svalvolatissimo amico di Hugh Grant in Notting Hill è bravo (per chi invece l'ha appurato dopo, come la sottoscritta, è stato un mezzo shock).

Si diceva che il film ha una trama possente e intricata, nella quale tutto è predisposto con un gioco a incastro dalla soluzione annunciata - benché non quella che ci si aspetterebbe.
Si diceva anche che l'intreccio è degno di Shakespeare stesso, così contorto e tragico; ma questo chiunque se lo sarebbe aspettato da un regista che sceglie di parlare del poeta di Stratford upon Avon.
Ciò che invece è il vero tocco di classe di questa sceneggiatura sta nel fatto che la trama sia ordita nientemeno che dall'acerrimo nemico di De Vere, cioè Cecil padre (Richard). Robert glielo spiega dettagliatamente alla fine, quando già Edward sente sul collo la lama che toccherà al figlio: nell'acme tragico della vicenda, Cecil junior dà il colpo di grazia rivelando che questa tragedia, la più dolorosa e la più riuscita - poiché reale - si deve non alla penna di uno sconosciuto aristocratico, bensì al lucido calcolo di un oscuro funzionario di corte.

Alla fine Richard avrà comunque la sua postuma sconfitta: sebbene a scapito della sua felicità, avrebbe voluto che Edward fosse re, e colui che prende il suo posto, Giacomo I d'Inghilterra, è così appassionato di teatro da omaggiare entusiasticamente le opere del bardo. Robert è destinato perciò a vivere immerso in quell'ambiente "frivolo" e umanista che con tanta foga lui e il padre avrebbero voluto reprimere.

Anonymous è una partita a scacchi nella quale a battersi sono la poesia e la sete di potere. E' una guerra tra chi assoggetta la propria intelligenza all'idealismo contorto (trascurando per questo anche il sangue del proprio sangue, che cresce come un clone, senza amore, ingozzato d'ambizione come le oche da paté) e chi lotta per poter parlare, in nome di un'eresia poetica che è quella, assoluta, dell'essere se stessi nomatterwhat.
Alla fine però nessuno vince (Bergman docet): Cecil fallisce nel mettere Edward sul trono, Edward non vedrà mai il suo nome associato alle sue opere. Nessuno vince perché in fondo una guerra è una tragedia, e in una tragedia ci sono solo vittime: lo shah mat di una scacchiera è il surrogato intellettuale di una lotta che si gioca a colpi di logica, senza sangue.

C'è solo una piccola luce di speranza a rischiarare questo dramma: Henry vive. E per quanto frutto dell'incesto, non è detto che la sua parabola sarà edipica.
Emmerich sorvola sul futuro per lasciarci almeno l'illusione che da una tragedia ci si possa salvare, sebbene a un prezzo molto alto: non conoscere la propria stirpe. Chi meno sa, più ha chances di gioia, poiché "le cose non sono un bene o un male di per sé; è il pensiero che le rende tali.