I dogmi sono fatti per essere infranti. O per entrare nell'Olimpo del cinema contemporaneo, si direbbe. Melancholia di sicuro contribuisce a entrambe le cose, e Von Trier non si smentisce nello sperimentare sulle trame sempre in funzione delle possibilità drammatiche che offrono.
Il film è un dittico i cui atti fanno perno sulle sorelle protagoniste, Justine e Claire, ma si apre con una sorta di prologo a fermoimmagini che parrebbe tratto da un'installazione d'arte visuale.
Le scene sono quelle, apocalittiche, dell'Armageddon. Sebbene inserite all'inizio per creare anticipazione, di fatto sarebbero state molto più efficaci al posto dell'orribile esplosione finale, dove va in pezzi anche il coinvolgimento emotivo.
Il dittico, si diceva, dà la precedenza a Justine, ed è impossibile pensare che la scelta del nome non derivi dal divin marchese De Sade, un cinico edonista alla stregua dello stesso Von Trier.
Si cominci col dire che Kirsten Dunst in questo ruolo è semplicemente magica. Oltre al physique du rôle azzeccatissimo (soprattutto nella seconda parte, dove il ritocco estetico è ridotto all'osso) l'uso della voce e quello del corpo sono magistrali.
Von Trier stesso ne deve esser stato stregato, se verso la fine le (CI!) regala un suo nudo integrale alla luce di Melancholia. Questa fra l'altro è in assoluto la scena più vitale di tutto il film (probabilmente della sua intera carriera): il pianeta e la ragazza sembrano chiamarsi e darsi vita reciprocamente, in un amplesso siderale che ricorda Giove e Io. Dopo quella notte lei sembra quasi riacquisire forza vitale: il suo candore è ancora più evanescente, e persino i capelli sono così chiari da risultare quasi bianchi.
Ma Justine in principio è soprattutto Ofelia, un'Ofelia che ha ottenuto il tanto agognato abito da sposa pur sapendo che non significa niente. Tutto è finto, artificiale, persino le lucidissime piante acquatiche intorno a lei.
Il primo atto, in perfetto stile Von Trier, ficca il dito in ogni piaga domestica e/o familiare: il quadro perfetto dell'inizio si sgretola a poco a poco e raggiunge sfumature sordide, tristissime.
Ciò che è impossibile non notare subito è che Michael, il neomarito, adora la sua sposa. Anche troppo. Infatti non c'entra niente né con lei né col film, e si autodistrugge penosamente nel discorso/dichiarazione d'amore che a fatica mette insieme, e che è un trionfo di balbettanti banalità.
Sebbene si tratti di quello splendore nordico di Alexander Skarsgård, che tutt'altri panni riveste nella serie True Blood, è ovvio dall'inizio che Justine non ami veramente il marito; l'ha scelto solo per distruggere il materno assioma secondo cui sposarsi è una scemenza, e guarda caso finisce per darle ragione a tempo record.
Insopportabile infatti è la scena della notte di nozze: lui, goffo di natura e offuscato dagli ormoni, come al solito la soffoca. Lei fugge allora sul prato, e persino lì viene raggiunta dall'improbabile tirocinante che le vuole estorcere uno slogan. Tutti pretendono qualcosa da lei, ed è la sua serata!
Così fa l'unico gesto liberatorio possibile: lo costringe a terra e vi s'accoppia, come una mantide che scaraventi i propri istinti sul maschio sbagliato.
Del resto è risaputo: se è la donna ad amare troppo prima o poi ne morirà; se è l'uomo, insisterà ottusamente fino al suo ultimo respiro. Perciò di solito le coppie funzionano se è lei ad amare di meno. In questo caso però il bel Michael è abbastanza sveglio - e no, non si sarebbe detto - da gettare la spugna in tempo.
Quella di Justine del resto è una melanconia ingannevole, troppo poco costante per poter incarnare l'ennui rinascimentale. Non si concentra mai su nulla, come se desse per scontato che sia inutile - o come se effettivamente sapesse cose, cose che la distraggono perennemente dal contatto con la vita reale, poiché la superano in gravità.
Come quando Michael, emozionatissimo, le dà la foto del terreno comprato a mò di regalo nuziale, che pare fosse un loro sogno da tempo. "La porterò sempre con me" gli sussurra dopo un bacio travolgente, e poi appena si alza non si accorge che l'è scivolata tra le pieghe dell'abito. Sebbene vittima del suo essere troppo cerebrale, Justine si comporta istintivamente, come un animale, spesso non curandosi degli effetti collaterali.
Per questo in fondo, anche se gli atti sono uno per ogni sorella, il film è una sua fredda apologia: Melancholia è lei, che come il pianeta impazzito distrugge senza averne coscienza.
E Von Trier, chiaramente, è come Justine. Lascia che ogni paranoia filtri direttamente sulla pellicola, rendendo il suo cinema null'altro che rito scaramantico. Il regista non a caso conterraneo del Principe del Dubbio crea ogni volta le peggiori situazioni possibili, in cui i fatti si incastrino in modo tale da non lasciare mai spazio alla speranza.
In questo caso siamo di fronte a un dittico tragico di proporzioni immani: la prima parte è l'implosione totale del concetto di famiglia, la seconda un Armageddon.
Il protagonismo di Claire si perde quindi nella tragedia (peraltro non convincente) della situazione: bravissima Charlotte Gainsbourg a far capire quanto odi la sorella - soprattutto mentre la guarda nuda sul prato - ma di fatto nemmeno la sua bravura riesce a dare smalto a un personaggio che non è stato concepito per averne.
L'unico polo opponibile a Justine per intensità espressiva è suo nipote, Leo (in onore di Da Vinci?), ed è facile capire perché. Il bambino è incontaminato. Non fa ancora parte della corruzione dell'uomo e della Terra, ed è l'unico verso cui Justine provi compassione: tornando a essere la sua Zia Indistruttibile, costruisce con lui la prima e ultima caverna di quella che avrebbe dovuto essere una lunga serie, rassicurandolo sul fatto che non cederà all'impatto col pianeta. Leo si fida: è l'unico a non avere paura a pochi istanti dall'esplosione.
Nichilismo e noia, depressione e sfiducia. Von Trier offre di nuovo gli stessi spunti per una riflessione che non si vorrebbe fare, ma che lui proprio non riesce a impedirsi. A chi dovesse essere deluso da questo film, probabilmente opporrebbe una risposta come quella che Justine dà a Micheal dopo la non-notte di nozze: "Che cosa ti aspettavi?"
A voi la scelta di andare via valigie alla mano o di restare, amando con devozione il non-amabile per eccellenza.