sabato 24 dicembre 2011

"Melancholia", Lars Von Trier

I dogmi sono fatti per essere infranti. O per entrare nell'Olimpo del cinema contemporaneo, si direbbe. Melancholia di sicuro contribuisce a entrambe le cose, e Von Trier non si smentisce nello sperimentare sulle trame sempre in funzione delle possibilità drammatiche che offrono.

Il film è un dittico i cui atti fanno perno sulle sorelle protagoniste, Justine e Claire, ma si apre con una sorta di prologo a fermoimmagini che parrebbe tratto da un'installazione d'arte visuale.
Le scene sono quelle, apocalittiche, dell'Armageddon. Sebbene inserite all'inizio per creare anticipazione, di fatto sarebbero state molto più efficaci al posto dell'orribile esplosione finale, dove va in pezzi anche il coinvolgimento emotivo.
Il dittico, si diceva, dà la precedenza a Justine, ed è impossibile pensare che la scelta del nome non derivi dal divin marchese De Sade, un cinico edonista alla stregua dello stesso Von Trier.

Si cominci col dire che Kirsten Dunst in questo ruolo è semplicemente magica. Oltre al physique du rôle azzeccatissimo (soprattutto nella seconda parte, dove il ritocco estetico è ridotto all'osso) l'uso della voce e quello del corpo sono magistrali.
Von Trier stesso ne deve esser stato stregato, se verso la fine le (CI!) regala un suo nudo integrale alla luce di Melancholia. Questa fra l'altro è in assoluto la scena più vitale di tutto il film (probabilmente della sua intera carriera): il pianeta e la ragazza sembrano chiamarsi e darsi vita reciprocamente, in un amplesso siderale che ricorda Giove e Io. Dopo quella notte lei sembra quasi riacquisire forza vitale: il suo candore è ancora più evanescente, e persino i capelli sono così chiari da risultare quasi bianchi.
Ma Justine in principio è soprattutto Ofelia, un'Ofelia che ha ottenuto il tanto agognato abito da sposa pur sapendo che non significa niente. Tutto è finto, artificiale, persino le lucidissime piante acquatiche intorno a lei.

Il primo atto, in perfetto stile Von Trier, ficca il dito in ogni piaga domestica e/o familiare: il quadro perfetto dell'inizio si sgretola a poco a poco e raggiunge sfumature sordide, tristissime.
Ciò che è impossibile non notare subito è che Michael, il neomarito, adora la sua sposa. Anche troppo. Infatti non c'entra niente né con lei né col film, e si autodistrugge penosamente nel discorso/dichiarazione d'amore che a fatica mette insieme, e che è un trionfo di balbettanti banalità.
Sebbene si tratti di quello splendore nordico di Alexander Skarsgård, che tutt'altri panni riveste nella serie True Blood, è ovvio dall'inizio che Justine non ami veramente il marito; l'ha scelto solo per distruggere il materno assioma secondo cui sposarsi è una scemenza, e guarda caso finisce per darle ragione a tempo record.
Insopportabile infatti è la scena della notte di nozze: lui, goffo di natura e offuscato dagli ormoni, come al solito la soffoca. Lei fugge allora sul prato, e persino lì viene raggiunta dall'improbabile tirocinante che le vuole estorcere uno slogan. Tutti pretendono qualcosa da lei, ed è la sua serata!
Così fa l'unico gesto liberatorio possibile: lo costringe a terra e vi s'accoppia, come una mantide che scaraventi i propri istinti sul maschio sbagliato.
Del resto è risaputo: se è la donna ad amare troppo prima o poi ne morirà; se è l'uomo, insisterà ottusamente fino al suo ultimo respiro. Perciò di solito le coppie funzionano se è lei ad amare di meno. In questo caso però il bel Michael è abbastanza sveglio - e no, non si sarebbe detto - da gettare la spugna in tempo.

Quella di Justine del resto è una melanconia ingannevole, troppo poco costante per poter incarnare l'ennui rinascimentale. Non si concentra mai su nulla, come se desse per scontato che sia inutile - o come se effettivamente sapesse cose, cose che la distraggono perennemente dal contatto con la vita reale, poiché la superano in gravità.
Come quando Michael, emozionatissimo, le dà la foto del terreno comprato a mò di regalo nuziale, che pare fosse un loro sogno da tempo. "La porterò sempre con me" gli sussurra dopo un bacio travolgente, e poi appena si alza non si accorge che l'è scivolata tra le pieghe dell'abito. Sebbene vittima del suo essere troppo cerebrale, Justine si comporta istintivamente, come un animale, spesso non curandosi degli effetti collaterali.
Per questo in fondo, anche se gli atti sono uno per ogni sorella, il film è una sua fredda apologia: Melancholia è lei, che come il pianeta impazzito distrugge senza averne coscienza.

E Von Trier, chiaramente, è come Justine. Lascia che ogni paranoia filtri direttamente sulla pellicola, rendendo il suo cinema null'altro che rito scaramantico. Il regista non a caso conterraneo del Principe del Dubbio crea ogni volta le peggiori situazioni possibili, in cui i fatti si incastrino in modo tale da non lasciare mai spazio alla speranza.
In questo caso siamo di fronte a un dittico tragico di proporzioni immani: la prima parte è l'implosione totale del concetto di famiglia, la seconda un Armageddon.
Il protagonismo di Claire si perde quindi nella tragedia (peraltro non convincente) della situazione: bravissima Charlotte Gainsbourg a far capire quanto odi la sorella - soprattutto mentre la guarda nuda sul prato - ma di fatto nemmeno la sua bravura riesce a dare smalto a un personaggio che non è stato concepito per averne.
L'unico polo opponibile a Justine per intensità espressiva è suo nipote, Leo (in onore di Da Vinci?), ed è facile capire perché. Il bambino è incontaminato. Non fa ancora parte della corruzione dell'uomo e della Terra, ed è l'unico verso cui Justine provi compassione: tornando a essere la sua Zia Indistruttibile, costruisce con lui la prima e ultima caverna di quella che avrebbe dovuto essere una lunga serie, rassicurandolo sul fatto che non cederà all'impatto col pianeta. Leo si fida: è l'unico a non avere paura a pochi istanti dall'esplosione.

Nichilismo e noia, depressione e sfiducia. Von Trier offre di nuovo gli stessi spunti per una riflessione che non si vorrebbe fare, ma che lui proprio non riesce a impedirsi. A chi dovesse essere deluso da questo film, probabilmente opporrebbe una risposta come quella che Justine dà a Micheal dopo la non-notte di nozze: "Che cosa ti aspettavi?"
A voi la scelta di andare via valigie alla mano o di restare, amando con devozione il non-amabile per eccellenza.

venerdì 23 dicembre 2011

"Midnight in Paris", Woody Allen

Chi avrebbe mai pensato a Owen Wilson come protagonista in un film di Woody Allen?
Probabilmente nemmeno lui stesso. Eppure in Midnight in Paris la sua aria svagata e ironica funziona benissimo, soprattutto se abbinata al broncio furioso di Rachel McAdams, bellezza in miniatura dall'aria ottocentesca (casualità o paradosso poetico?).

Gil, detective di professione e scrittore nei sogni, è soave e tranquillo per carattere, ma in fondo si accontenta di una vita che gli va stretta. Parigi lo affascina da tempo e gli piacerebbe rimanervi, ma Inez, la succitata futura sposa, non può vivere senza la frenesia americana.
Una sera, dopo l'ennesimo noioso party, Gil decide di lasciare fidanzata e amici alla loro notte brava sulla pista da ballo, e se ne torna in albergo solo e alticcio. Ovviamente si perde, ma è la cosa migliore che gli sia mai capitata nella vita: un'auto d'epoca si ferma bruscamente di fronte a lui, una portiera si apre e degli inviti in francese ne sgorgano. Gil, complici l'alcool e la frustrazione (lasciare la sua ragazza con quell'amico saccente forse non è stata cosa buona e giusta), non se lo fa ripetere. E non se ne pentirà.

L'idea che sottende la storia è senza dubbio geniale nella sua semplicità. Gil sogna gli anni '20, la Parigi cubista e surrealista e i suoi miti letterari (Hemingway su tutti), ed è proprio lì che la misteriosa auto lo conduce, dando inizio a un sogno reale che termina solo quando è lui a deciderlo - a questo proposito, finissima la scelta di dare alla definizione "macchina del tempo" un senso letterale.
E pure è carina l'idea che nemmeno l'animo cinico e logico di un detective possa sfuggire al sortilegio; per una coerente inversione, da inseguitore diviene inseguito nella Francia dell'Ancien Régime.

Oltre a quest'ultimo, alcuni altri sketch pseudocomici fanno rivivere il Woody Allen della sua (non a caso) epoca d'oro.
Uno è chiaramente lo scambio di battute tra Man Ray e Gil, quando lui per la prima volta confessa di non appartenere a quel secolo e si sente rispondere che "è del tutto normale: tu abiti in due mondi. Finora io non ci vedo niente di strano." Al che Gil, senza scomporsi, controbatte con un'altra ovvietà: "certo, voi siete dei surrealisti!".
Altro momento clou è quello del consiglio a Buñuel circa il concept de L'angelo sterminatore, che però non viene per niente compreso. "Es que no entiendo porque no puedan salir", ripete il regista, vagamente ottuso.
Infine, Allen sembra un po' accanirsi sulla figura di Hemingway: sebbene gli regali un discorso memorabile durante uno dei viaggi con Gil, dove afferma che saper amare bene una donna equivale ad allontanare la morte (CHE UOMO!), rende poi ridicola la sua irruenza mostrandone il lato peggiore durante una sbronza. In ogni modo si avverte sempre, di fondo, una certa affettuosità d'intenti. E probabilmente su (e con) Hemingway Gil e Allen sono d'accordo.

Vi sono però altri episodi da citare. Come l'ultima conversazione tra Gil e Adriana (Marion Cotillard), splendida musa e amante degli artisti: quelle battute sarebbero state rese alla perfezione da vecchi Woody Allen nevrotici, mentre lui, due generazioni dopo, non riesce a renderle credibili.
Anche la pedanteria dell'amico di Inez è cedevole; più che ricordare la puntigliosa Diane Keaton in Manhattan, fa pensare a scialbi "cattivi" di una qualunque commediola americana.
Certe parentesi lasciano l'amaro in bocca, dunque. Ma non è questo, in fondo, il senso del film? Dirci che la vita, anche quella dei registi, e quindi anche quella del loro cinema, ha sempre e comunque dei momenti un po' insoddisfacenti?

Quel che è certo è che in questo film Woody Allen gioca dall'inizio alla fine. Gioca con il tempo, coi suoi personaggi, persino con alcune pietre miliari della storia dell'arte e della letteratura, mettendo tutti sullo stesso piano.
Lo fa con leggerezza - di più, con noncuranza, creando una trama che probabilmente avrebbe dato esiti folgoranti se il film fosse stato girato anche solo una dozzina d'anni fa, mentre ora risulta un'idea perfetta eppure malriuscita. Ed è casuale che proprio in un'opera in cui si burla del tempo Allen sia costretto a farci i conti "perdendo" contro se stesso?

Il problema di Midnight in Paris è che, come dice a un certo punto Adriana parlando degli scrittori, è troppo pieno di parole. Non c'è spazio per chi guarda, perché l'intuizione diventa spiegazione senza che si abbia il tempo di lasciarla decantare.
Allen fa muro preventivo alla critica famelica che si abbatterà sul suo ultimo lavoro: parrebbe dire "basta chiacchiere inutili, quel che si vede è quello che è", in puro stile minimalista. Che poi è lo stile universale a cui sempre giungono i grandi artisti nell'autunno del loro lavoro.

Per mezzo secolo s'è parlato di Woody Allen, leggendo e rileggendo le sue opere in relazione al cinema europeo e/o, in chiave (anti) semita. Il tempo dell'affermazione è finito da un po'. Ora è il momento del divertissement e/o del revival sotto nuove spoglie, che un po' funziona (Scoop, Vicky Cristina Barcelona) un po' scricchiola (Cassandra's Dream, You will meet a tall dark stranger, dove peraltro una fantastica Naomi Watts è andata del tutto sprecata). Ma in fondo per gli aficionados gli intenti poetici contano fino a un certo punto; quando dalle sale l'opera alleniana chiama, il cuore risponde. Con buona pace della critica intellettuale.

martedì 20 dicembre 2011

"This must be the place", Paolo Sorrentino

C'è un'immagine soprattutto che resta in mente di questo film, ed è l'onda vitrea dello stadio di Dublino che si staglia sui tetti. Ha le sembianze della curiosità, una curiosità fuori luogo che segue la vicenda senza preoccuparsi d'esser vista; la sua trasparenza la protegge. E ciononostante incombe, falsamente fragile. 
Proprio come il protagonista del film: l'eccentrico Cheyenne, ex rockstar di dubbio talento e molta fama che si muove come un bradipo metropolitano ormai ritiratosi a vita privata. E che vita. Una casa coloniale circondata da un terreno immenso, e arredata col pessimo gusto di chi aveva di meglio da fare che impedire all'interior designer di soddisfare i suoi capricci.



Cheyenne, lo si scopre increduli, ha persino una moglie. Ovviamente è l'opposto di lui, al punto che nelle sue prime scene appare (volutamente?) come una badante, o un'amica chioccia e disinteressata che ogni tanto passa a rimboccare coperte e preparare pasti decenti. La realtà è che sono una coppia insospettabilmente salda, e da più di trent'anni per giunta.

Nella vita di Cheyenne c'è comunque un'altra donna - anzi, altre due; l'ombrosa e triste Mary (Eve Hewson) e sua madre (Olwen Fouere), figura potentissima precipitata sul set irlandese direttamente da una tragedia di Euripide. 
In effetti quella dell'ex rockstar è una vita abbastanza muliebre. L'unico amico maschio è un tipo fastidioso e logorroico, che si crede un gran tombeur des femmes e che non perde occasione di snocciolare le sue conquiste al nostro, sempre più annoiato (uno pensa che la bocca di Sean Penn non possa storcersi più che nell'ultimo film, e invece a ogni nuovo personaggio raggiunge una piega ancora più amara).

Però, c'è un però. Questo film è così incredibilmente ben fatto (anche) perché nessun personaggio è (solo) quello che sembra, a partire dal protagonista.
Cheyenne è quasi autistico, si vede. Non esce mai senza portarsi appresso un trolley/coperta di Linus, parla sempre con una pacatezza da psicofarmaci e la è un'espressività schizofrenica; eppure sa anche essere un amico empatico, un amante appassionato e un automobilista dispettoso. La moglie (Frances McDormand), allegra ed estroversa vigile del fuoco, quando lui è assente inizia a scricchiolare, rivelando tutta la sua nostalgia in un'unica e importantissima battuta. Lo stesso borioso amico di cui sopra a un certo punto rivela una sensibilità insospettata esprimendo una grande verità: le donne vogliono soprattutto tempo. E' ciò che più di ogni altra cosa le fa sentire valorizzate e desiderate, e ciò che in definitiva permette a lui di portarsi a letto chi voglia, pur non essendo, come gli dice Cheyenne, né bello né intelligente né profumato.

Nulla e nessuno è solo quel che appare, dunque. Così come il vecchio nazista alla fine (Heinz Lieven), che rivela il suo inferno personale quando Cheyenne e l'amico del padre stanno per andare via. La scena è forse la più indimenticabile del film: l'uomo che fino a un momento prima era piantato nella poltrona come su un trono, distaccato e fermo nel raccontare il proprio tragico passato, esce nella neve, nudo e inerme, e da artefice diviene vittima dell'Olocausto. Non c'è solo la desolazione di Auschwitz in questa inquadratura; c'è l'essenza medievale dell'inferno, quel Cocito dantesco che per gelo avea di vetro e non d'acqua sembiante. Lange sarebbe stato destinato alla Caina: traditore del proprio sangue in quanto carnefice dei propri simili, boia della sua stessa specie.

Eppure Cheyenne non si vendica, o almeno non lo fa con la pistola che ha comprato per l'occasione. L'unico scatto che si sente è quello memorabile della digitale che ruba un primissimo piano dell'aguzzino, mentre con leggerezza Cheyenne gli dice che è un peccato che suo padre sia morto prima di lui. La pena non sta in una pallottola, ma nel ricordo.

E poi, c'è Rachel. La ragazza che incontrata durante il viaggio in terra americana, che in buona sostanza lui circuisce in quanto nipote dell'uomo che sta cercando. 
Nonostante il suo passato, lei ha un amore profondo per quel nonno tanto presente, che le ripete che per lei ci sarà sempre. Piange, mentre parla di lui. E poi forse s'innamora un po' di quello strano personaggio che è entrato a bruciapelo nella sua vita, che eccezion fatta per il figlio sembra triste e solitaria.

Difficile non pensare che Cheyenne potesse ignorare il dolore che le avrebbe inferto la morte del nonno.

Questo però non è un film moralizzante, attenzione. L'unico genere al quale si potrebbe ascrivere è di tipo letterario, ed è quello del romanzo di formazione. 
La madre di Mary aveva detto a Cheyenne che lui non ha mai sentito il bisogno di fumare perché è rimasto un bambino, e i bambini sono i soli che non abbiano quel desiderio. Così, quando alla fine lui accetta una sigaretta sigilla in qualche modo il suo passaggio all'età adulta - molto più così che nell'aver stanato un criminale nazista.
In fondo non si è riconciliato col padre; ha solo imparato ad accettare la sua memoria. Cercare quell'uomo era soprattutto un modo per lavarsi la coscienza: far fuori un criminale di guerra avrebbe moralmente pareggiato le due giovani vite dei fan che lui, senza volerlo, si era preso.



Col padre dunque non v'è (ri)conciliazione possibile; come accade spesso anche nella vita reale tra genitore e figlio maschio. 
Ma le donne, i grandi e bellissimi personaggi di questa fiaba postmoderna, riempiono schermo e anima con momenti cinematografici indimenticabili.
Lo fa Rachel (Kerry Condon), con la sua fredda fierezza; lo fa la piccola Mary, arrogante per necessità, dark perché la sua vita non le lascia scelta; e lo fa soprattutto sua madre, che è forse IL personaggio di questo film, ancor più densa e tormentata del protagonista.

Di lei si sa soltanto che aspetta, come Anticlea, il ritorno del figlio. Diversamente da lei però la madre di Mary resiste, pur solcata dal dolore e, forse, da un principio di follia. E quando all'angolo della strada che sempre fissa compare finalmente il profilo tanto atteso, la sua traboccante soddisfazione si riversa sulla platea con un'empatia furiosa.

Il primo piano lunghissimo del suo sorriso - che poi è anche una delle ultime inquadrature del film - è intenso, orgoglioso, il volto di una Medea che non s'è macchiata d'irreparabile, ma che al contrario ha scelto l'amore.



Infine, il viso del figlio è un colpo di scena: è identico a Cheyenne. E' suo fratello gemello, dunque, e Mary la sorellina? Oppure è lo stesso Cheyenne, ripulito da ogni orpello estetico che era forse solo un guscio da opporre alla freddezza paterna, ma che ha anche impedito alla madre di riconoscerlo per tutti quegli anni?
Chissà. Quel che è certo è che il film si chiude con una riconciliazione, quella che col padre si era resa impossibile. Una volta di più, quindi, l'elemento femmineo è catalizzatore di pace ed equilibrio, d'interminabile presenza. E una volta di più, soprattutto, il regista parrebbe dire: nulla è mai soltanto quel che sembra. Fino alla fine.