sabato 28 luglio 2012

"Le notti di Cabiria", Federico Fellini

Fellini è bianco e nero, si sa. Quando pasticcia coi colori è come quei bambini che ancora non sanno reggere il pennello tra le dita e per aumentare la presa calcano la mano sul foglio.
Sì, è pur vero che Amarcord s’è meritato una delle quattro statuette hollywoodiane vinte in tutta una carriera, ma non è un caso se l’unica Palma d’oro sia stata per La dolce vita.
In ogni modo un Oscar se l’è conquistato anche la piccola Cabiria con le sue notti scellerate - e, come si vedrà, coi suoi ancor più scellerati giorni.

La storia è così semplice che quasi non esiste (e con una trovata sadica ma efficace Fellini la fa iniziare e finire nella stessa maniera). Cabiria è una prostituta romana piccola e decisa, con una chioma troppo bionda e un paio d’occhi neri che trafiggono. Ogni notte le riserva una sorpresa, qualche volta anche piacevole: come quando incontra Alberto Lazzari (quasi vero: l’attore è Amedeo Nazzari) che la porta in un locale e le offre la cena. Sarebbe una serata perfetta, non fosse che lui finisce per far mattino con l’amante fissa, una valchiria dalle labbra morbide e (giustificatamente) incline all’isteria. Cabiria dorme in bagno con il cane, e alle prime luci viene pagata e rispedita a casa. 
Per fortuna almeno una casa ce l’ha, a differenza di molte sue colleghe che vivono nelle grotte sotterranee della “Passeggiata Archeologica”, tra cui una vecchia che ai suoi tempi era la ragazza più gettonata di Roma. Adesso rimpiange i doni dei suoi infiniti amanti, i gioelli, l’oro, che però evidentemente non sono valsi ad assicurarle una vecchiaia decente. Cabiria la guarda e le si inumidiscono gli occhi, un po’ per compassione un po’ per paura. A lei non hanno mai regalato oro e gioielli; se già la sua è una vita modesta, come finirà quando la sua giovinezza non potrà più assicurarle il pane?

Ma Cabiria non è donnetta incline ai sentimentalismi. A fronte di una sensibilità che nemmeno lei sa quanto sia profonda, reagisce al malumore con praticità e orgoglio. E spesso si mette anche a ballare.
É deliziosa la Masina quando balla; brava, si vede, ma di una bravura spoglia da tecnicismi. Il suo è un corpo che si muove gioendo di sé, fiero, eretto e plastico nella sua esilità. Quando balla Cabiria svela un’insospettata eleganza, uscendo quasi dal suo personaggio; ma è la voglia di vivere ciò che emerge potentemente dai suoi passi aggraziati e decisi, una voglia di vivere che non la abbandonerà mai.

Un giorno Cabiria va anche in chiesa a chiedere la grazia alla Madonna. Non è molto convinta, eppure nel pellegrinaggio fino al santuario accende anche una candela - perché lo fanno tutti, in realtà lei non sa neanche a cosa serva. Però Cabiria è rispettosa e devota, non vuole che gli altri la considerino da meno.
Una volta entrata, l’abnorme massa di fedeli comincia a intonare litanie di misericordia in toni rotti e struggenti, e Cabiria un po’ si unisce al coro un po’ ha paura: che sta succedendo, perché si sente così a disagio?
Chiama a sé la sua amica Wanda, bonaria matrona tuttadunpezzo (un pezzo piuttosto imponente, peraltro), e le chiede di starle vicino, perché ha paura. Wanda le è sempre stata vicino, anche nel darle consigli e nel dirle in faccia certe brutte verità che Cabiria a volte, capricciosamente, non vorrebbe ascoltare.
Dopo la funzione, le due donne e qualche amico si ritrovano su un prato a mangiare e rilassarsi. Cabiria resta a disagio: tutta quella passione, quell’ardore, eppure non è cambiato nulla. Lei è uguale a prima, le cose sono uguali a prima, tutto è com’è sempre stato. E allora a cosa è servito? A che è valso sentirsi così atterrita e spaventata, se poi la vita è sempre la stessa?
Wanda è più laconica, lei mica s’era illusa di niente. È una donna pratica, a volte anche insofferente alle sfuriate di Cabiria, al traboccare della sua confusa empatia.
È per questo che Wanda capisce subito che qualcosa non va con quel tipo con cui sta uscendo la sua amica; uno che la riempie di belle parole e di promesse, che non vuole niente da lei e un giorno addirittura le chiede di sposarlo.
Cabiria l’ha incontrato una sera per caso, a uno spettacolo di magia dov’era stata chiamata sul palco. Ancora una volta, sul suo atteggiamento scettico e grossolano prevale l’ingenuità: il mago le fa credere di aver ancora diciotto anni e di essere corteggiata da un giovane, Oscar, così timido da non riuscire neanche a svelarle il suo nome.
Lei cede all’incanto, cosicché il ritorno alla realtà di fronte a un berciante uditorio è ancor più violento. Eppure Cabiria fatica ad uscire dal teatro; e proprio questo suo indugiare le costerà caro, quando allo stesso modo non saprà essere immune dal fascino dell’uomo che la corteggia solo per avere i suoi soldi, facendo leva proprio sulla sua bellissima credulità.

Come dicevamo, la storia di Cabiria comincia con un inganno, e con un inganno ancor peggiore si chiude. Eppure lei non cambia mai, così come non cambia la sua vita - al limite va in peggio, appunto.
Perfetto opposto del bildungsroman, il racconto esistenziale di Cabiria la pone di fronte a molte prove, a molte strade e a molti problemi, e lei li affronta senza che mai la sua purezza ne sia scalfita. Alla fine riesce a commuovere persino il suo aguzzino; il quale, dimostrandosi il più vile dei vili, scappa coi soldi ma la lascia in vita.
Eppure a lei basta incontrare, sulla desolata via del ritorno, un gruppo di artisti di strada che suonano e ballano; e i suoi occhi pieni di lacrime riprendono a sorridere, i suoi piedini stanchi accennano due passi di danza e la speranza le risale alle labbra.

Fellini è maestro nel raccontare miserie e splendori (interiori) dei reietti, giostrando abilmente sul confine tra volgarità e compassione, empatia e ignoranza. Meno grezzo di Pasolini e meno drammatico di De Sica, si salva dalle cupezze del neorealismo grazie alla dimensione della fantasia, dell’infanzia, del carnevale che ritiene in fondo essere la vita umana: piena di delusione, di noia, di rabbia, eppure sempre profondamente meravigliosa, con le sue incognite e i suoi muti perché.
Benché senza un soldo, senza la casa che faticosamente è riuscita a comprarsi, senza null’altro che gli abiti che porta, non si può non invidiare Cabiria: perché qualsiasi fondo lei raggiunga, vorrà sempre arrampicarsi di nuovo verso la superficie, e lo farà da sola, senza alcuna ragione più o meno reale, sensata o logica alla quale aggrapparsi.
Cabiria non dice, non giudica, non si pone domande: le basta un brivido d’archi, un rantolo di fisarmonica, ed ecco la sua caviglia si leva senza esitare, nell'ultima e gioiosa risposta.