venerdì 24 febbraio 2012

"The Reader", Stephen Daldry

L’oggettività è sopravvalutata. Dopo aver visto The Reader chi scrive se n’è convinta perché in caso contrario questa recensione non esisterebbe. E non sarebbe scritta in prima persona.
È difficile, e molto, evocare a parole una storia così. Delicata da far male, tanto che pur essendo intessuta di parole ogni descrizione che non sia per immagini può solo guastarla (sono ben lieta di non aver letto il romanzo).
Senza paura d’esagerare, la ritengo una delle più grandi storie d’amore di tutti i tempi. Forse soprattutto per la qualità dei protagonisti.

Hannah - che ironia questo nome ebreo - è una donna decisa e severa, la cui intensa bellezza ha appena cominciato a sfiorire. Lavora sui tram della Siemens, e presto verrà “ricompensata” per la sua diligenza. Michael è un quindicenne che per caso incrocia la sua strada, e poi non riesce più a levarsela dalla testa.
La scena in cui lei lo seduce è incantevole. Con una scusa lo fa spogliare, gli prepara un bagno, lo asciuga; e quando l’inquadratura cambia, ci accorgiamo che lei è nuda dietro l’asciugamano pronto a cadere. Istinto materno e amore di donna sono la mistura fatale per Michael: Hannah gli insegnerà ad amare in ogni senso, e lui non saprà mai più applicare la lezione imparata a qualcuno che non sia lei.

Ciò che colpisce di più in questa relazione è che lui non è il classico brutto anatroccolo senza speranza; è anzi un giovane splendore puntato perfino dalla più bella della scuola (una bionda solare, ovviamente). Ma nemmeno le trecce dorate della compagna riescono a fargli dimenticare Hannah: come direbbe Baudelaire, ha già bevuto alla coppa di fiele che ogni essere amato è per noi.
Il loro primo litigio lo lascia distrutto. Tremante le si avvicina, chiedendole se l’ama. Lei, regina di freddezza e per questo ancora più ambita, non gli concede nemmeno l’onore della sua voce: annuisce, suo malgrado. Poco dopo se ne andrà, promossa sul lavoro, senza lasciare di sé nemmeno una traccia.

Quando si è amato - o si ama - qualcuno a questo modo, non si può non cadere nello stesso abisso di Michael nel momento in cui avverte, con la sola forza di un'empatia fatale, che lei se ne sta andando, e corre a casa sua per trovarvela completamente vuota. E la sua angoscia riecheggia alle pareti, gratta sul letto con le dita di lui che scavando le lenzuola trattengono ricordi e umori sotto le unghie. Quanto male fa quell’inquadratura, e quant’è immensa: lui in posizione fetale, un bambino (kid, come lo chiamava lei), che lievissimamente tocca le coperte e respira piano, come un gattino appena nato, un cucciolo fragile. Chi non si è mai increspato su un letto a quel modo per una chiamata che tarda, o peggio: per la certezza che non arriverà?
C’è in quella scena, io credo, la quintessenza del dolore per un amore perduto, il senso d’incompletezza, di non accettazione, di fragilità assoluta. Il non-senso.

La chiave di volta di questa magnifica struttura narrativa è però un elemento in particolare del rapporto tra Hannah e Michael: la lettura.
L’ambiguità dell’analfabetismo di Hannah è voluta; la si scopre solo a tre quarti di film, e ha molto più impatto rispetto all’intuizione che se ne può avere quando lei brama che Michael le legga tonnellate di pagine, da Omero a Lawrence (che Hannah trova peraltro deliziosamente pornografico).
Soluzione poetica e drammatica perfetta, la letteratura unisce le loro sensibilità, quella selvatica e scabra di lei a quella già raffinata di lui. Perché lei sarà sì illetterata, ma sa amare il bello: e quando sindrome di Stendhal la coglie mentre ascolta un coro di voci bianche in una chiesa di campagna, Michael resta sulla porta col cuore trafitto dalle sue lacrime.

Hannah ha il doppio dei suoi anni, ma questo è ciò che nella coppia la rende più fragile; sa bene che lui prima o poi si interesserà alle coetanee, e probabilmente per questo fugge senza una parola, calpestandolo con crudeltà.
Ma chi fugge, chi suo malgrado preferisce ferire che essere ferito s’illude; poiché la fuga è una rinuncia, un abbandono, una perdita, un atto di malvagità nei confronti di se stessi e dell’altro, e come acutamente scrisse Sartre a proposito del grande Genet, malvagio è chi soffre nel fare il male. Malvagio poiché conscio di ferire, come Hannah; ma anche conscio di non poter fare altrimenti, e la sua debolezza sta nel sentirsi quasi predestinato a quel ruolo, come Lucifero, come Giuda.
Hannah agisce con una sorta di morboso sadomasochismo; capisce che il solo modo che ha di tenere Michael legato a lei per sempre è suggellare il suo maleficio bucandogli il cuore come la rosa con l’usignolo di Wilde, e lasciandovi per sempre la sua spina.
Michael non amerà infatti mai nessun altra donna; a salvarlo sarà l'affetto paterno per la sua tenera figlia. Ma anche lei nel frattempo avrà subito la maledizione, ricevendo dal padre sempre meno amore di quello che avrebbe voluto.

Anche Hannah, ovviamente, sconta la sua pena. Violentissima è la confessione indiretta del modo in cui trattava le giovani deportate ad Auschwitz; costringendole alla lettura, le faceva oggetto di attenzioni premurose, quasi materne, e poi le mandava a morire.
Hannah è una donna tanto orgogliosa da non poter ammettere la sua ignoranza pur sapendo che ciò le costerà quasi la vita; eppure è anche tanto debole da non rassegnarsi a vivere un amore coi giorni contati. Sceglie di non credere, di non vivere. Sceglie un destino di morte e devastazione, sceglie il nulla.

Io vedo invece in Michael l’amore più grande possibile. Un sentimento che lo spinge al limite estremo, da cui quasi si lascia distruggere pur riemergendone (metaforicamente purificato dall’acqua di un lago) rassegnato a vivere e forse più forte; perché quell’amore lo porta con sé, lo protegge, come aveva fatto con Hannah un giorno di fronte all’acida cameriera di una locanda.
Basterebbe la prima metà del film a mostrarci quanto appassionato possa essere lo spirito di un ragazzo sensibile; ma nella seconda c’è un uomo di successo, ormai in età matura, che in nome del sentimento più importante della sua vita passa le notti a registrare la propria voce affinché colei che non ha mai dimenticato lo ascolti ancora come trent’anni prima.
Benché già questo commuova chiunque, Hannah supera le nostre aspettative: grazie alle musicassette di lui impara a leggere e scrivere. E sarà questo che orgogliosamente gli dirà quando per l’ultima volta si rivedranno: “Qualcosa ho imparato. Ho imparato a leggere.”

Non le serve più qualcuno che le racconti storie, che la intrattenga con la sua voce: lei ha trovato la propria. Ma ormai è tardi, e il tempo è implacabile; puntellandosi su quegli stessi libri che tanto le avevano insegnato, Hannah si toglie la vita.
Si potrebbe pensare che sia l’ennesimo suo atto d’arroganza; lo è. Ma quando si sceglie di vivere ciò che è più grande di noi, ciò che non si ha la forza di sopportare, ci si punisce spesso con cattiveria, con una fragile superbia da ostentare nei confronti del mondo.
Sarà una delle sopravvissute allo sterminio nazista a mettere le carte in tavola al posto di Michael; a esprimere ciò che lui non poteva, e cioè che quella donna in qualche modo gli aveva tolto la vita, la gioia, la capacità di amare. In nome di una logica assurda e gelidamente razionale, Hannah l’aveva trascinato con sé nei propri abissi, seppur negandogli se stessa. Quando invece forse lui l’avrebbe davvero amata per sempre.
E alla fine Michael dimostra ancora una volta la sua forza, la sua essenziale bontà. Porta la figlia davanti alla tomba di Hannah, e comincia a raccontare. O meglio: a leggerle finalmente la sua storia.

PS Questo film non ha soltanto il merito di raccontare un legame incredibilmente profondo e tormentato. E' anche una delle poche pellicole di un certo spessore artistico a non sfruttare biecamente il vittimismo post-Olocausto che di questi tempi è tanto inflazionato. Che Hannah sia stata una guardia nazista è funzionale al suo dramma e alla storia; e come probabilmente è stato per molti altri come lei, la sua è una tragedia nella tragedia.

domenica 12 febbraio 2012

"The Artist", Michael Hazanavicius

Silence behind the scene.”
Questo uno dei primissimi cartelli ad apparire sullo schermo. E l’incipit è veramente programmatico: non solo un film nel film, ma con un pubblico che guarda, e quello stesso pubblico sono gli attori del film medesimo. Muto.
Perché The Artist è un film anni '20 in piena regola, che consumandosi racconta l'inizio del sonoro. La grande maestria di Hazanavicius sta nel non aver reso il suo meta-cinema uno sterile riflesso intellettuale del cinema stesso; al contrario, ha fatto della metafora visiva la colonna portante della storia, al punto che qualche volta, in sala, ci s’è dimenticati di essere nel XXI secolo.

L’esperimento di H. (mi si permetta questa licenza poetica che riecheggia Nabokov senza intenzione), non è proprio un caso isolato. Qualche anno fa addirittura la Pixar, pur se improntata a un target (anche) molto giovane, s’è cimentata in un film che non è muto solo per un quarto: Wall-E. Curiosamente pare che la storia, ecologista e commovente come solo una ex Disney poteva pensarla, abbia però  adombrato gli intenti dei registi, che hanno avuto la spericolata idea di proporre a dei bambini un robottino che al posto della voce aveva un cuore. Purtroppo per il grande pubblico il cinema d’animazione galleggia ancora in quel limbo indefinito per cui pur apprezzandolo non lo si equipara mai ai film dal vero. Si confida nella Pixar affinché le cose cambino drasticamente.
Tornando in topic, sicuramente The Artist è più ambizioso e historically correct; oltre all’ovvio bianco e nero, la recitazione degli attori è curata all’inverosimile, e Dujardin/Valentin (che somiglia a Clarke Gable), sarebbe stato un perfetto divo del cinema muto. La coprotagonista invece, Bérénice Bejo nei panni di Peppy Miller, è una stupefacente bellezza contemporanea che poco o nulla avrebbe avuto a che fare coi dettami estetici degli anni ’20, ma che la monocromia della pellicola rende non solo credibile, addirittura divina.

La bravura di H. sta nell’aver fuso due macrolinee narrative (la storia del cinema e quella di George) incentrate su un fulcro unico: la (non) parola. Il protagonista non vuole parlare, e finché lui non si decide a farlo nemmeno noi sentiremo nulla; eccezion fatta, naturalmente, per la parentesi sognante, dove avendo perso un controllo conscio della situazione George si ritrova a percepire ogni singolo suono potenziato e distorto.
Geniali sono poi alcune scene in cui il protagonista non vuole usare la voce indipendentemente dal suo essere sul set o meno; una su tutte quella in cui la moglie, esasperata dal loro rapporto, gli urla che devono parlare, talk to me! Talk to me!, ma lui se ne resta sul divano col cane Jack (coerenza pura: è un Jack Russell), senza proferir parola. E di fatto, non c’è proprio più nulla da dire a una donna che imbratta con rabbia le foto del marito.

Questa sequenza è tanto più incisiva (e dolorosa) se paragonata invece a quelle in cui George e Peppy s’incontrano; eccezion fatta per lo scontro iniziale, quando lei gli cade fra le braccia per sbaglio, gli altri due momenti di contatto sono sublimemente descritti. Prima, nel caos del set non ancora impostato, lui vede un paio di splendide gambe danzare oltre un cartellone che ne nasconde la proprietaria, e con queste George ingaggia una gara di ballo che si risolverà nella piacevolezza di ritrovare proprio Peppy nella divertita ballerina.
La seconda scena invece è quasi un colpo di fulmine in slow motion; esigenze di copione prevedono che George balli (stavolta guancia a guancia) con Peppy, per poi lasciarla sulla pista e andare a occuparsi di affari evidentemente più gravi. Ma in qualche modo non vi riesce, e i ciak si accumulano tra risate e momenti d’incanto, poiché i due attori sono sempre più ammaliati l’uno dall’altra.

Il sopravvivere del loro sentimento a distacchi e problemi è molto dolce. E benché il lieto fine sia quasi scontato, ha comunque il sapore di una gioia guadagnata, come in un moderno bildungsroman dove il protagonista deve imparare a rimettersi in discussione già in età matura, prova spesso insuperabile nella realtà.
 Peppy del resto non è sempre amabilissima. Quando George la sente dire che il cinema non ha più bisogno di "tutte quelle smorfie", reagisce giustamente indignato. Anche perché, diciamolo, quanto a espressività facciale la ragazza è un tantino debordante.
Eppure i due riescono sempre a ritrovarsi, spesso per semplici coincidenze. Esemplare a questo proposito è la scena in cui s’incrociano a metà scala negli studios; lui avvilito per l’incombenza del sonoro, lei spumeggiante nella sua sempre più rapida scalata al successo (non a caso lui sta scendendo le scale, mentre lei le risale).
Lo scenario formicolante e indifferente fa pensare subito a Metropolis, e il bianco e nero conferma la sensazione. I due sono gli unici elementi fissi in un magma umano brulicante, gli unici a prendere fiato dall’industrioso ritmo del cinema - del nuovo cinema, s'intende. Infatti uno dei motivi per cui George tanto lo avversa è che teme che il sonoro possa spersonalizzare gli attori, svilire le loro doti espressive. Non molto diversamente da come, nel 1950, l’orgogliosa Norma Desmond affermava il suo ruolo di diva atemporale nel bellissimo film di Wilder.

Restando in tema di citazioni colte, non può mancare Hitchcock; ripreso qui non in maniera didascalica, bensì in omaggio al suo stile. Come lui H. riesce a dare piena voce alle immagini, che letteralmente parlano da sole. E di nuovo si entra nel campo del metalinguaggio: quando Peppy e George stanno per scambiarsi uno sfortunato primo bacio, alle loro spalle campeggia una locandina dal titolo “Thief of her heart”; dove lui, ovviamente, è protagonista. Più tardi, quando George è ormai in miseria, in una sequenza disperata dove rischia addirittura la vita per strada, sullo sfondo è ben visibile l’enorme cartellone di una nuova uscita cinematografica: “Lonely star”.

Come già detto in apertura - ma è sempre bene sottolinearlo - l'aspetto geniale di The Artist è proprio l’uso del linguaggio: è un film che (non!) parla di cinema e di linguaggio cinematografico attraverso una trama che di per sé funzionerebbe alla grande anche senza l'aspetto metaespressivo.
E siccome di meta-intenti si sta parlando, metaforicamente questo film è come Jack, il superintelligente cagnetto di George (che a Hollywood s'è pure guadagnato una sfilata sul red carpet e svariati premi): quando tenta di avvisare la guardia dell'incendio a casa del padrone, una passante, colpita dalla sua espressività, commenta sbalordita che "gli manca solo la parola!"
Considerando il finale, al film di Hazanavicius non manca neanche quella.