giovedì 6 dicembre 2012

Happy People: a year in the Taiga (Vasyukov, Herzog)

Benché non ami definirsi tale, Werner Herzog è uno degli ultimi romantici nel vero senso della parola.
Il suo è un romanticismo ecologico e selvaggio, certo; è pur sempre un uomo del ventesimo secolo. Ma ogni fotogramma dei suoi documentari è un discreto, poetico inno alla cruda bellezza della natura.
Per crederci basta dare un’occhiata a una delle sue ultime fatiche, realizzata in co-regia con il russo Vasyukov: Happy People: a year in the Taiga.
Il documentario segue per l’appunto un anno delle vite di alcuni cacciatori e abitanti di un piccolo paese nel mezzo della Siberia, dove si arriva solo in elicottero o in barca, e dove la vita è molto più che spartana. La suddivisione in stagioni a mò di macrocapitoli è semplice e funzionale: mette infatti in risalto quanto la gente del luogo (circa trecento abitanti) dipenda in tutto e per tutto dalle condizioni dell'habitat, i cacciatori in primo luogo.

Si comincia, ovviamente, con la primavera. In paese si festeggia la fine dell'inverno durante il Labour Day, cioè il primo di maggio. Un fantoccio-feticcio della stagione fredda viene immolato al fuoco, e la gente festeggia con canti e danze tradizionali. Il 9 dello stesso mese, invece, viene commemorata la fine della Seconda Guerra Mondiale, con la resa dei tedeschi. Un veterano di guerra viene intervistato da Herzog, ma la voce gli si spezza prima che riesca a finire il suo racconto.
A parte il gioire per l'estate imminente, in questo periodo c'è davvero molto da fare: bisogna sistemare le trappole e segnalarle, per ritrovare la zona durante la stagione di caccia, quando il bosco sarà ormai trasformato. C’è la legna da raccogliere affinché si secchi durante l’estate, e ci sono nuove barche da costruire.
Un vecchio, ultimo custode di un’arte ormai quasi dimenticata, intaglia canoe da un singolo tronco, servendosi di attrezzi tradizionali e aiutandosi solo con puntelli di legno; la barca non è fatta di nient’altro, a parte il catrame per isolare la chiglia.
I cacciatori si avventurano sul fiume che ormai si sta sciogliendo per testare le nuove imbarcazioni e portare i cuccioli dei loro cani a fare la prima gita fuori dal villaggio. Un cacciatore senza il suo cane infatti non è un cacciatore: i piccoli devono imparare in fretta ad adattarsi a nuove situazioni, anche all’essere malamente lanciati sulla riva dal rude ma bonario padrone. Durante l’estate questi stessi cuccioli, ormai adulti, avranno sviluppato una totale dimestichezza nel viaggiare lungo il fiume, al punto che uno di loro cercherà persino di cacciare un cervo tuffandosi nell’acqua dietro di lui. La sfida è senza speranza, ma l’ipnotica voce di Herzog sentenzia: “he has no chance, but try, he must”.

L’estate porta sole e sollievo alla popolazione stremata dal gelo, ma porta anche incredibili sciami di zanzare che non danno tregua ai cacciatori intenti a costruire/sistemare le capanne per l’inverno. Uno di loro però scrolla le spalle: le zanzare non gli danno fastidio, fintantoché è concentrato sul proprio lavoro non le sente nemmeno.
Per proteggere cani e bambini dall’attacco feroce, li ricoprono con un unguento ricavato dalla corteccia delle betulle, che funge da repellente per i fastidiosi insetti. Al tramonto però non c’è antizanzare che tenga: i bambini vengono addirittura chiusi in casa.
Con l’estate giunge anche il momento di lavorare le travi ricavate in primavera per gli sci. Lo spessore è incredibilmente sottile: un paio di centimetri di leggerezza e flessibilità, che quasi non si crede siano stati letteralmente estratti dal tronco solo grazie a un’ascia e a dei puntelli di legno. Tra gli attrezzi più tecnologici di questi cacciatori ci sono infatti a malapena le motoseghe, senza le quali il loro lavoro diventerebbe incredibilmente lungo. Tutto il resto è artigianale e manuale.
A raccogliere la legna per l’inverno, invece, sulle rive dello Yenisey troviamo alcuni dei pochissimi rappresentanti dei Ket, popolo eurasiatico un tempo nomade e successivamente inglobato (a forza) nell’impero sovietico. I loro tratti ricordano un po’ quelli dei mongoli, ma con una visibile influenza russa.
Così come gli indiani d’America, i Ket subiscono la pressione di un potere politico asfissiante, che li tiene a bada con la vodka; nessuna meraviglia che molti di loro, come dice Herzog, abbiano problemi con l’alcool. “We’re drunk and we do our job”, dice uno di loro con disarmante rassegnazione. “The russians are to blame”, commenta un altro, acido “without the russians wouldn’t have been vodka”.
Ma il suo collega ribatte che “no, it’s our own fault”: c’è anche chi vive bene, la scelta è sempre personale. Di chi poi sia la colpa per un certo stato di cose, è troppo difficile stabilirlo. A questo punto, anche Herzog non ha parole per commentare la prosaica saggezza dell’operaio.
Viene aperta allora una piccola parentesi di intimità. Una vecchia mostra delle strane bambole di cuoio (sembrano più ciabattine con la faccia), che hanno poteri apotropaici. Si tratta della rappresentazione dei loro spiriti benevoli (i Ket non hanno una religione vera e propria; praticano una sorta di sciamanesimo). Questi dovrebbero vegliare le case dei fedeli durante la notte; eppure quella stessa notte la casa dell’operaio “saggio” viene rasa al suolo da un incendio provocato da un mozzicone di sigaretta. Col solito luminoso pragmatismo, l’uomo commenta che gli spiace di non avere più le sue bambole benedette, inghiottite dal rogo.
Non tutto è però estremo e difficile, nel villaggio sullo Yenisey: l’estate porta anche qualche nave da crociera con turisti, e soprattutto tanto cibo offerto dalla terra, che va consumato e custodito.

Quando i primi forti venti cominciano a soffiare e gli scoiattoli a conservare le noci, significa che l’autunno è alle porte. Con l’autunno però arriva anche la politica: i nuovi candidati alle elezioni vengono a fare campagne “spettacolari” per nascondere la corruzione dilagante e impressionare i popolani. Giovani e bambini sono affascinati; gli adulti hanno di meglio da fare, i vecchi non si fanno ingannare.
Quando si vive in mezzo alla Siberia, in ogni caso, il tempo per oziare è veramente poco. Insieme alla caccia, la pesca è la maggiore risorsa di cibo e una delle quotidiane occupazioni. In questo periodo dell’anno si pesca di notte, con una luce sulla prua della canoa ad attrarre i pesci, e arnesi di preistorica memoria per catturarli.
Ma l’autunno è soprattutto il momento dei cacciatori: e ora che le acque del fiume sono in piena, si possono trasportare attrezzi e provviste per la stagione fredda. A questo punto Herzog si lancia in un'apologetica dichiarazione a favore di queste “happy people”, tali proprio in virtù della loro professione: la caccia li rende liberi da tutto, dai media, dalla famiglia, da capi invadenti e stressanti ritmi di lavoro. Neppure gli orsi, che in quelle zone sono una minaccia reale e pericolosissima, riescono a turbare i loro preparativi (e questo nonostante i cacciatori vivano in capanne con finestre protette solo da strati di cellophane).
Quando finalmente gli orsi vanno in letargo, le provviste vengono sistemate: e anche qui la plastica si rivela un’insospettabile benedizione, poiché isola il pane impilato in una cassetta su un albero e se arrotolata intorno al tronco previene la salita dei topi, grande minaccia per il prezioso cibo. I pesci invece, pescati con canna e fucile (!), vengono messi a gelare naturalmente su una trave tra due alberi.
Ciò che affascina lo spettatore occidentale abituato a ogni comfort è che nella Taiga tutto viene utilizzato al massimo delle proprie possibilità, il legno soprattutto. Le trappole sono di legno (a parte le crudeli tagliole), la barca viene tirata in secca grazie a un rudimentale tornello di legno, gli sci sono di legno e grazie al legno si può avere il fuoco e scaldare un po’ di the, unica consolazione in mezzo alle nevi irriducibili.
Il cacciatore non ha lussi né comodità; suo unico compagno d’avventure è il cane, indispensabile e affettuoso. Uno dei cacciatori a questo punto racconta una commovente vicenda riguardante uno dei suoi cani ucciso da un orso: “I was overwhelmed with sadness”, dice alla fine.

L’inverno, finalmente, arriva. Servono nuovi attrezzi da forgiare e vanno gettate delle reti da pesca approfittando della crosta di ghiaccio ancora non troppo spessa. I pesci per fortuna non mancano mai.
Quanto alla caccia, ci si specializza generalmente in zibellini, perché gli scoiattoli non hanno granché mercato; ma anche gli zibellini, se sono troppo piccoli, vengono rifiutati. Questo a riprova del fatto che il cacciatore non è libero dal dio rublo neanche nella Taiga.
Le trappole utilizzate per questi animali sono “primitive, eppure sofisticate”; inoltre, con buona pace degli spiriti più sensibili, “it’s a humane way, because it kills at once”. Non una goccia di sangue viene versata: l’animale spira in un colpo deciso.

“We are all killers or accomplices. Even those who have bleeding hearts intent to pity everything.” Il cacciatore non è diverso dal fattore che alleva il maiale per poi ucciderlo, cibarsene e rivendere ciò che avanza: è solo più onesto, poiché non cresce o nutre le sue prede. Gli animali della foresta non si aspettano cure amorevoli dall’uomo per poi “ricevere una pallottola”: si aspettano solo pericolo, com’è giusto che sia. Le regole sono note a chi partecipa, si tratta solo di mostrare chi è più bravo nell’efferato gioco della caccia.

Herzog filma affascinato questi uomini umili avvolti dal gelo, che gli paiono esseri primitivi emersi da una qualche lontana era glaciale. Nelle immagini che ci regala vi sono rispetto e ammirazione, e forse anche una punta di invidia; poiché un romantico è per definizione colui che si emoziona per un evento sublime o selvaggio, non colui che lo vive. Quest’ultimo infatti, anche a 33 gradi sotto zero, è troppo felice per realizzarlo.
“When I came here, I had the feeling that my dream had come true. You enjoy the beauty of nature and you do your job at the same time. That’s why they all end up by being hunters; because hunting bring you closer to the Taiga, and anything else”.